Spesso si sente dire che i soldi puntati al gioco sono “sottratti all’economia reale”.
Lo dice, in genere, chi ha una posizione molto critica nei confronti del gioco d’azzardo o, comunque, lo considera un pericolo, più che una fonte di divertimento.
Gli imprenditori del settore e gli stessi lavoratori, invece, trovano queste affermazioni sorprendenti e a volte anche irrispettose nei loro confronti.
Uno per tutti, Stefano Zapponini, fino al 2021 presidente di Sistema Gioco Italia, che come imprenditore opera in tutt’altro settore (l’editoria) ed è formatore in Confindustria.
“Il gioco è un’attività reale, eccome! Tanto che qualcuno dice che non gli sta bene. Altrimenti di che avrebbero da lamentarsi? Si tratta di un servizio. E io mi richiamo, come faccio sempre quando entro in aula, al Codice civile: l’imprenditore è colui che esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.
E chi può negare che questo è un settore altamente professionalizzato? Il gioco passa attraverso la tecnologia per tutelare il giocatore dai rischi di ludopatia, con i limiti di puntata o il rallentamento, come previsto dalle norme. Difatti, gli operatori sono vigilati dall’Agenzia dogane e monopoli e agiscono in virtù di un’autorizzazione dello Stato. Chi dice il contrario può essere solo disinformato o in malafede”.
Ma cos’è esattamente questa “economia reale”? E se non è “reale”, che tipo di economia sarebbe quella del gioco, che pure muove tanti soldi?
Ecco come risponde chi usa spesso questa espressione e chi di economia (reale o meno) si occupa professionalmente, insegnandola all’Università e nelle aziende.
Angela Fioroni – segretaria di Legautonomie, associazione di enti locali, da tempo impegnata nel contrasto all’azzardo patologico.
Le vincite al gioco tornano nel gioco
D. Lei ha più volte dichiarato che i soldi destinati al gioco entrano in un circuito economico poco sano. Ma, parlando del gioco legale, quindi controllato dallo Stato, cosa intende esattamente?
R. La “economia reale” è quella degli acquisti utili alle persone. I soldi che io spendo per comperare dei vestiti, del cibo, cose per i figli. Anche per fare dei viaggi. Insomma cose che si comprano per vivere meglio. Mentre chi cade nella dipendenza da gioco cosa fa? Si limita a giocare. E tutto quello che vince lo gioca di nuovo.
D. Ma lei parla della dipendenza, che non è certo la massa dei giocatori. Oltre il 90% dei giocatori gioca con misura e con le sue puntate alimenta un circuito economico. Cosa c’è di poco “reale” in queste attività?
R. Sì, la dipendenza riguarda il 2,2%, secondo i dati del Ministero della Salute. Che comunque in un paese di 10mila abitanti sono 100 giocatori patologici! E quindi 100 famiglie coinvolte. E l’abitudine di rigiocare le vincite riguarda tutti i giocatori. Parliamo di cifre importanti: 100 miliardi di euro all’anno. Più del bilancio della Exor, la finanziaria che controlla la ex Fiat.
D. In realtà, la spesa reale è di 20 miliardi. Si arriva a calcolare 100 miliardi perché gli stessi soldi vengono puntati più volte.
R. Io considero che solo in Lombardia la spesa effettiva dei cittadini nel 2019 è stata di 3,28 miliardi.
D. Ecco, questi soldi hanno alimentato un’industria che in quella regione occupa migliaia di persone. A parte la quota del Fisco che è circa la metà, il resto va ad aziende che pagano tanti stipendi.
R. Esatto. E se andiamo a vedere i numeri, la quantità di persone impegnate nel settore è molto minore rispetto ad altri settori.
D. Quindi, la distinzione tra economia reale e altro tipo di economia è data dal numero di occupati che un settore economico produce?
R. Guardi che non sono cose che dico io. Sono cose che leggo nei documenti ufficiali come le relazioni di una commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie del 2017 o la relazione presentata dal Ros dei Carabinieri nell’audizione del marzo 2016. E quello che leggo è che il gioco d’azzardo, oltre a ridurre il tenore di vita per sé e per il proprio nucleo familiare, limita la propria capacità di spesa che altrimenti sarebbe dirottata verso altre tipologie di acquisti.
D. Mentre invece alimentano le aziende del gioco. Ma queste, a loro volta, costituiscono un settore economico, no?
R. Le dico una cosa che ho verificato qualche anno fa, ma immagino che le cose non siano cambiate: sui 13 concessionari che operavano allora (concessionari di awp e vlt ) solo quattro o cinque erano in attivo. Tutti gli altri erano in forte passivo ed erano finanziati da fondi internazionali, con sede nei paradisi fiscali dei quali non si conosceva il nome. E su questo la nostra proposta di legge popolare puntava a fare chiarezza.
Maurizio Fiasco – Sociologo, consulente della Consulta nazionale antiusura.
È finito il gioco dalla filiera lunga
D. Professor Fiasco, lei è un sociologo ma fa spesso riferimento a questo concetto
dell’economia reale per dire che il gioco non contribuisce in alcun modo.
R. L’economia reale è quella legata a un processo di valorizzazione. Mentre, per esempio, acquistare una valuta e rivenderla trattenendo la differenza dà un margine finanziario ma nel processo di valorizzazione non aggiunge nulla. Cioè, non contribuisce a far crescere il PIL. Anzi, crea un’ulteriore passività all’economia del prodotto o dei servizi reali perché ne riduce la competitività.
D. Quindi, c’è un’analogia tra la finanza e il gioco d’azzardo perché entrambi producono plusvalenze che non corrispondono a una produzione di beni o servizi?
R. Sì. E anche perché i nuovi giochi che stanno sostituendo il paniere tradizionale, sono a filiera cortissima. Non è più come quando si scommetteva negli ippodromi, dove c’era una filiera produttiva con il maniscalco, la selezione e l’allevamento delle razze equine, chi cura le stalle, chi fa la manutenzione dell’ippodromo…
D. Ma tutte le attività di gioco impegnano altre figure professionali. In una sala bingo lavorano decine di persone.
R. Guardi, quando si stava progettando il bingo, nel 1999, si diceva che le 844 sale previste avrebbero occupato 30mila addetti. Verrebbero 35 persone per ogni sala. Poi di sale se ne sono aperte poco più di 200. E l’attività è rimasta a margini negativi finché non hanno autorizzato di installare dentro le slot machine.
D. Ma alla fine anche lì c’è una filiera. Come nelle scommesse, dove ci sono figure professionali di altro genere: il quotista, gli statistici… e poi i servizi accessori; come la trasmissione degli eventi sportivi, le transazioni dei pagamenti…
R. Sì, ma quanti sono? Quanti sono i lavoratori in rapporto al volume? Nei nuovi giochi c’è un’alta concentrazione di high tech.
D. E non è economia anche quella? La tecnologia viene sviluppata, installata, aggiornata…
R. Guardi è come per il commercio, che è passato dal negozio di prossimità alla grande distribuzione e poi all’e-commerce. Certo, il supermercato impegna meno persone del negozio sotto casa, ma c’è una razionalizzazione. Quando però arriviamo al commercio via Internet, i produttori non hanno più il filtro e la mediazione del negoziante. E il numero di addetti crolla. Questo significa che il valore aggiunto dato dalla forza lavoro impiegata tende a sparire.
D. Ma questo riguarda tutti i settori. Nel gaming, la tecnologia ha sicuramente un impatto rilevante; ma coinvolge anche qualunque altra attività e ne riduce i costi.
R. Non solo abbatte i costi, cambia anche la composizione della domanda. E come effetti collaterali ha degli impatti che non sono contabilizzati nei bilanci dei gestori dell’e-commerce. L’impatto ambientale… il movimento su gomma per la distribuzione delle merci… Tutti costi che paga la collettività.
D. Anche in questo caso lei individua le ricadute negative. Ma si tratta comunque di economia reale o no?
R. Allora provo a fare un esempio. Il proprietario di un terreno decide di destinarlo a discarica. Per lui, la discarica genera un utile. Ma le risorse di quel territorio vengono distrutte. Ecco, gli economisti dicono che in questo caso un’attività anziché “produrre valore”, “estrae valore”. Come il gioco d’azzardo, che non crea valore ma lo estrae.
D. Permetta un altro paragone: in quale categoria rientra il cinema? Fa parte dell’economia reale, o no?
R. Certo, il cinema è produzione di valore. Perché c’è una filiera che non solo concorre al prodotto ma genera una domanda che si riverbera su altri settori: ristoranti, editoria…
D. Volendo, anche chi scommette e si vede con gli amici al bar alimenta un indotto.
R. Questo quando c’era il Totocalcio, che aveva una filiera lunga. Ma l’attuale gestione degli eventi sportivi è a filiera cortissima, se non amputata.
D. Però c’è una produzione di video degli eventi che prima non esisteva.
R. Sì, ma dall’altra parte c’è il crollo della presenza negli stadi.
D. Certo, ma oggi si seguono discipline sportive che prima nemmeno si conoscevano. E comunque non è del tutto chiaro perché 10 euro dati al cinema producono ricchezza e 10 euro dati a un bookmaker no. Ci sono lavoratori in entrambe le attività.
R. Compariamo i numeri. Io aspetto di sapere non solo quanti sono i lavoratori del settore ma come sono distribuiti, cosa fanno. L’ho chiesto ma nessuno me lo dice.
Massimo Ferracci – Esperto di antiriciclaggio e docente di Finanza internazionale
presso Nibi (Nuovo istituto di business internazionale)
Con scommesse e bingo, più posti di lavoro dei luna park
D. Professor Ferracci, lei si occupa sia di economia che di finanza e, soprattutto, dei reati connessi ai movimenti di denaro. Può dirci se, dal punto di vista tecnico, i soldi che incassano gli operatori di gioco e il Fisco circola al di fuori dell’economia reale?
R. Ma no, perché mai? Il gioco è economia reale, eccome. Si tratta di servizi, al pari di un’apericena, un caffè. Sono servizi ludici, che non hanno niente di diverso dagli altri servizi. Diverso è quando parliamo di chi dal proprio computer fa trading on line, compra e rivende guadagnando un margine. In quel caso, si può dire che non è stato attivato un processo produttivo. Non c’è stato uno “scambio di beni e servizi”.
D. L’accusa di alcuni è proprio quella. Che i soldi incassati dalle attività di gaming non attivano un circuito virtuoso, cioè non alimentano molti posti di lavoro né altre aziende come fornitori.
R. Ma non è vero. La dimostrazione è che nel settore dei giochi c’è un proliferare di aziende che richiedono notevoli investimenti. Perché bisogna creare delle società, le strutture, i sistemi informatici, le piattaforme, attivare i collegamenti internazionali con bookmaker e altri provider. Insomma, gli investimenti sono veramente tanti. E si dà lavoro a informatici, a giovani, a pubblicitari. Questo è un volano interessante dell’economia.
D. Quindi, come servizio ludico, come attività di divertimento, si potrebbe paragonare a un Gardaland o un qualsiasi luna park?
R. Per certi versi, quella del gioco ha degli effetti ancora maggiori sull’economia reale. Perché un parco di divertimenti per gran parte fa manutenzione delle giostre e la gestione dei visitatori. Una società di gaming deve rispettare una normativa molto complessa che viene continuamente aggiornata. E questo significa che sono nati studi specializzati nella consulenza per l’adeguamento alle nuove norme, oltre ai report da presentare periodicamente alle authority di riferimento. Adeguarsi a nuove norme significa spesso intervenire sulle attrezzature per apportare delle modifiche o addirittura sostituirle. E solo i dipendenti diretti dei concessionari sono decine di migliaia. Senza contare poi i gestori dei punti gioco e tutti coloro che lavorano intorno a quest’attività.
D. Allora saprebbe spiegare perché qualcuno considera il gaming un’attività pressoché parassitaria?
R. Non saprei. Io sono stato tanti anni in Usa e in Uk, dove il gioco è considerato un’attività quotidiana, un servizio come un altro. Ho assorbito un po’ quella mentalità anglosassone e valuto il settore tecnicamente. Tutto quello che riguarda i rischi di patologia di quest’attività non rientra nelle mie competenze. Se mi chiede di valutarlo dal punto di vista economico, si tratta di un’attività economica a tutti gli effetti. E in ogni caso, non credo che la si debba demonizzare; così come non vanno demonizzati Internet, lo streaming e così via.
Vincenzo Provenzano – Docente di Economia all’Università di Palermo ed esperto di microcredito ed Economia del No profit.
Anche le emozioni sono realtà economica
D. Professor Provenzano, senza entrare nelle questioni di tipo morale o sociale, lei è in grado di dire se tecnicamente, secondo quanto dicono gli studiosi di economia e di finanza, le attività di gioco con puntate in denaro rientrano o meno nell’economia reale?
R. Con un’affermazione di questo genere si rischia di fare filosofia. E di chiederci, come Hegel, “cos’è reale?”. In effetti, quando si parla di “economia reale”, si fa riferimento a settori produttivi. Cioè a produzione fisica di beni e servizi. L’economia finanziaria, invece, fa riferimento all’utilizzo di risorse finanziarie sulle quali costruire altre risorse finanziarie. Ma sono ormai 30, 40 anni che noi viviamo in un’economia finanziaria. Perché il movimento delle risorse finanziarie è molto più ampio rispetto al movimento dei beni fisici.
D. E il gioco può rientrare in un ambito analogo? Cioè, il tentativo di creare denaro con il denaro?
R. No, perché le attività di gaming sono basate su una filiera produttiva. Una sala bingo, con i suoi incassi paga l’arredo della sala, le attrezzature, gli stipendi dei dipendenti. E questa non è economia reale?
D. Lei si occupa di una disciplina specifica: l’economia comportamentale. Può fare una valutazione del comportamento di chi punta al gioco i suoi soldi?
R. L’economia si basa sul meccanismo di rischio/rendimento. Se io decido di spendere 5 euro per acquistare un oggetto che mi piace, ho fatto una scelta. Rinunciando ad acquistare un’altra cosa o a risparmiarli. Allo stesso modo, posso decidere di metterli su un gratta e vinci, sperando di averne un ritorno. Cioè un risultato. Dire che questi soldi vengono sottratti all’economia reale non ha alcun significato.
D. Anche se quella persona spende tutto il suo stipendio per i gratta e vinci?
R. Il problema non è il valore dei soldi ma l’utilizzo. E anche se uno va a giocare tutti i giorni alle slot machine e perde una fortuna, quei soldi poi rientrano in un altro giro. Perché il gioco è a somma zero: chi perde e chi guadagna. Dal punto di vista economico, c’è una redistribuzione di queste risorse. Poi, la valutazione sulle conseguenze sociali o addirittura sulla patologia di questi comportamenti è un altro discorso.
D. Sì, abbiamo premesso di non voler entrare nel merito morale. Ma che differenza c’è, dal punto di vista puramente tecnico, tra una puntata all’ippodromo e l’acquisto di azioni in Borsa?
R. Teniamo presente che la finanza è comunque legata a beni fisici. Prenda un prodotto finanziario molto noto come i futures. Non sono altro che una scommessa sul prezzo che un bene come il petrolio potrà avere da qui a qualche anno. A Chicago sono stati inventati i prodotti derivati che nascevano dai prodotti agricoli: io scommetto sulla crescita del prezzo del succo di limone. Quindi, pago oggi per poi chiudere il contratto dopo un anno. È una scommessa.
D. Anche l’imprenditore, quindi, scommette.
R. Il concetto di rischio imprenditoriale è uno dei primi meccanismi che sono stati studiati in economia. Se io decido di prendere dei capitali e investirli in un determinato settore, ho rinunciato (per esempio) a metterli in buoni del tesoro ordinari che mi danno lo 0,50% perché penso che una mia attività mi possa dare di più. Ho rischiato.
D. Però, a differenza dell’imprenditore, il giocatore sa che comunque il banco vince sempre. Cioè, i giocatori (nel loro complesso, non individualmente) perdono comunque.
R. Ma anche la sola emozione di rischiare quei soldi è un ritorno. Non c’è solo un ritorno economico ma anche di emozioni.
D. Un po’ come le giostre del luna park o il cinema?
R. Certo. È tutto basato sulle emozioni Questo spiega anche perché alcuni entrano in una spirale patologica: il gusto per quell’emozione diventa una droga. Io che ho studiato anche il comportamento dei poveri nei confronti del denaro, posso dire che il povero gestisce i soldi in modo molto più raffinato di una persona che ne ha tanti. Perché ha poche risorse. E non ha nemmeno la certezza di quando potrà avere disponibili nuove risorse.