Dopo i numeri, le interviste tra la gente: indagine a Pavia sul fenomeno dell’azzardo.

Vice presidente della Provincia di Pavia, con delega all’Istruzione, Milena D’Imperio è promuove spesso presente e partecipa a iniziative contro i rischi del gioco d’azzardo. In questa intervista, spiega i suoi obiettivi e la sua posizione.

 

Domanda. Lei fa una battaglia contro tutto il gioco d’azzardo o contro il gioco patologico?

Risposta. Sicuramente contro il gioco patologico, contro il riciclaggio di denaro e contro tutto quel mondo di illegalità che si sviluppa ahimè intorno al gioco. Non bisogna demonizzare il gioco in quanto gioco, in quanto momento di svago. Bisogna demonizzare il fatto che l’eccesso e la perdita di controllo possano provocare danni sociali enormi. Con una molla che è la sete dei guadagni facili.

“Non bisogna demonizzare il gioco in quanto gioco, in quanto momento di svago. Bisogna demonizzare il fatto che l’eccesso e la perdita di controllo”

D. Per intervenire sulla prevenzione dei danni da gioco si registrano delle sovrapposizioni di competenze tra varie istituzioni. Per esempio, quelle dello Stato centrale e quelle degli enti territoriali, quindi le Regioni, i Comuni e le stesse Provincie, se rimarranno. Secondo lei qual è la situazione in questo momento e quale dovrebbe diventare?

R. I sindaci conoscono bene i loro territori. Consideri che in provincia di Pavia ci sono circa 188 Comuni, molti dei quali piccoli. Piccoli significa al di sotto dei 3000 abitanti o comunque al di sotto dei 5000. In una comunità così piccola una sala slot è devastante.
Non è vero per altri territori in cui i Comuni hanno 10-20.000 abitanti. Quindi, intanto le normative dovrebbero tener conto che un insediamento del genere debba essere poter nascere in un contesto più ampio; in cui i Comuni abbiano anche le risorse per far fronte anche ricadute negative di queste attività e che riguardano per esempio la malavita.
Quello che sta succedendo nella nostra provincia è che questi insediamenti si trovano in Comuni molto piccoli che non hanno la forza, non hanno la capacità. non dico di opporsi ma di tenere sotto controllo quelli che sono gli impatti sociali sulla loro composizione.

D. E comunque un’Amministrazione provinciale mi pare sia in un limbo al momento. Qual è il tipo di intervento che fate? Mi riferisco a due cose. La prima è la rilevazione perché la terapia parte da una buona diagnosi. Come fate a misurare il fenomeno? Secondo: come intervenite, se intervenite in qualche modo?

R. Premetto subito che non abbiamo competenze specifiche; e non le avevamo nemmeno prima quando la Provincia aveva pieni poteri per le sue competenze. È chiaro che ora, come ente sovracomunale, noi supportiamo i Comuni nella fase di monitoraggio attraverso, per esempio, alcuni progetti. Quindi utilizziamo le poche risorse che abbiamo per mettere in campo delle rilevazioni. Lo stiamo facendo adesso, insieme a delle associazioni e insieme all’Università di Pavia, su un progetto di ricerca che mette a disposizione dei ricercatori sul territorio.

“Abbiamo messo in piedi una ricerca sul territorio con l’Università di Pavia e alcune associazioni”

D. Quindi con interviste a un campione di popolazione?

R. Sì, con interviste e con rilevazioni che ci aiuteranno a capire come potere orientare l’azione dei Comuni e, speriamo, anche dei gestori. L’obiettivo dell’indagine è di rilevare in che modo le persone vengono a contatto con il gioco, quali sono le abitudini dei giocatori e le loro motivazioni, oltre ad alcuni elementi del profilo molto importanti, come l’età.

D. Pensa che ci sia differenza tra i vari giochi a livello di insidia, di pericolo?

R. A dire il vero no, perché anche il gratta e vinci può essere pericoloso. Dipende sempre da ognuno di noi: perché c’è chi lo prende una volta vince o perde e la cosa finisce lì, poi ci sono persone particolarmente sensibili che invece il primo vincente si trasforma in una serie di Gratta e Vinci perdenti. Quindi uno strumento che può sembrare assolutamente innocuo potrebbe trasformarsi in uno strumento assolutamente perverso.
Io li metterei tutti sullo stesso piano.

D. In attesa di vedere i risultati di questa ricerca, a lei risulta anche sul piano dell’esperienza personale magari condivisa con altri che ci sia la multi dipendenza di cui parlano gli specialisti?

R. Certo. Anzi uno dei problemi che intervengono perché da parte dell’utente sia quello di pensare che cambiando gioco si possa mitigare, si possa affievolire la dipendenza e si possa un po’ uscirne. Quindi direi proprio che la multi dipendenza è assolutamente presente.

D. Poi c’è la presenza di dipendenze di vario genere, cioè non solo da giochi differenti ma da comportamenti differenti o da sostanze differenti. In pratica, oltre a essere dipendente dal gioco, una persona è dipendente anche, per esempio, dall’alcol o dallo shopping compulsivo.

R. Non ne sono così certa. Perché mentre è più facile associare a volte alcol e droghe piuttosto che le droghe che con lo shopping compulsivo, credo che il gioco sia qualcosa di molto solitario.
Il giocatore che arriva ai livelli patologici e quello che non condivide. Anzi nega di fronte alle altre persone. Per cui lo vedo come un mondo a sé stante. Addirittura mi viene da pensare che chi è in questa spirale condanni tutte le altre patologie, le altre dipendenze.
Ho conosciuto anche alcuni casi di persone diciamo insospettabili che sapendo che stavamo lavorando su questi temi mi hanno avvicinato mi hanno raccontato la propria storia. Sicuramente vedere i risultati di questa ricerca sarà molto interessante.
Io la trovo una dipendenza diversa dalle altre. Che si matura anche in un contesto diverso.

D. Per l’aspetto preventivo, invece, lei ha parlato spesso dei giovani che sono a contatto con lo sport. Immagino che stiate lavorando anche sulle droghe che sono del tutto legali a differenza del gioco.

R. Certo la prevenzione migliore in campo è quella dello storytelling, come si dice oggi. Quindi qualcuno che va a raccontare a dei ragazzi qual è il proprio percorso e come ne è uscito. È chiaro che noi vogliamo raccontare storie di chi è stato avvicinato e ha rifiutato e storie di chi c’è entrato ma ha anche avuto la capacità di uscirne.
Quindi lo storytelling e le testimonianze sono lo strumento più efficace in assoluto.
Poi, senza dubbio, far vedere ai ragazzi quelli che sono le conseguenze sul quotidiano. Non quelle macro. Perché se io andassi a dire mio figlio sai che ci sono milioni di euro che si buttano in quell’attività, allora direbbe “Caspita!”. Però poi lo dimentica subito. Mentre invece, sapere che ci sono delle persone che erano benestanti avevano il proprio lavoro e l’hanno perso a causa di questa patologia, hanno perso la casa, hanno mandato a monte anche il futuro dei propri figli, credo che questo possa avere un impatto maggiore.

D. Da una ricerca viene fuori che le dipendenze più diffuse, e per le quali gli intervistati hanno maggiore consapevolezza, sono altre. Perché ai primi posti c’è la tecnologia poi sono le droghe l’alcool e solo all’ottavo posto c’è il gioco. Se si guarda sui giornali, invece, si parla molto più di gioco che di tutto il resto. Come se lo spiega?

R. Beh intanto è una questione culturale. Per esempio, l’alcol è sicuramente da combattere, soprattutto fra i ragazzi, ma viene percepito come qualcosa dalla quale si può uscirne più facilmente. E comunque ha un impatto sociale limitato. Ovviamente noi sappiamo perfettamente che non è così. Siamo stati i promotori di un progetto contro la diffusione dell’Aids e delle malattie trasmissibili sessualmente con un questionario iniziale dove c’è la domanda “Secondo te, l’alcol è un fattore che può portare verso determinate patologie?” E la risposta di tutti era “no”. Poi invece la docente spiegava che quando ci si trova in condizioni di annebbiamento a causa dell’alcol non si valuta più qual è il partner con chi si sta facendo cosa e quindi la conseguenza può essere quella più drammatica.
Credo che tutto ciò che non fa parte della nostra cultura sia quello che poi ci fa più riflettere e solleva la red flag, come dicono gli inglesi. Per cui culturalmente la scommessa, per come soprattutto si è evoluta in questo periodo, appartenga più ad un mondo anglosassone. Forse è per questo che viene enfatizzata molto di più. Dopodiché è vero che i numeri che si muovono attorno alle droghe all’alcol sono enormi e anche quelle patologie hanno un costo sociale notevoli per cui sicuramente bisognerebbe fare un combinato disposto.

“Credo che la scommessa appartenga alla cultura anglosassone. Bisognerebbe arrivare a una cultura del gioco come abbiamo fatto con la cultura del vino”

D. Si sente parlare spesso della necessità di creare una “cultura del gioco”, così come si è creata una “cultura del vino”. Per cui tra il dire “proibiamo del tutto” e “lasciamo fare tutto” ci potrebbe essere questa via di consapevolezza che prevede un approccio razionale.

R. Certo riuscire a individuare un equilibrio, così come abbiamo individuato quella che è l’etica del bere con la qualità e la gestione attenta. E parlo ovviamente di vino e non di superalcolici. Così si può sicuramente pensare a una etica del gioco che non sfoci in una patologia socialmente pericolosa.

Facebooktwitterlinkedinmail